Su Ottana e dintorni
Riprendo la sollecitazione a discutere ( e fare) di Vincenzo Migaleddu su FB. Il discorso va precisato. È importante. Bisogna parlarne. Il mio punto di vista è questo: bisogna distinguere i discorsi. C'è stata una prima fase dell'industrializzazione in Sardegna, con i poli di Sarroch/Macchiareddu e Porto Torres. Poi una seconda, di cui Ottana è il centro.
La prima fase ha trasformato radicalmente la Sardegna ed è stata accompagnata dal Piano di Rinascita, che è servito – si badi bene – non a fare le scelte strategiche (che erano già fatte altrove) ma a rapportare ad esse tutto l'assetto produttivo e soprattutto sociale conseguente.
Una volta rilevati i limiti di quell'esperienza, la stragrande maggioranza delle forze politiche, sindacali e sociali della regione ha scelto un nuovo modello, quello rappresentato dalla 208, che prevedeva due direttrici fondamentali, per l'industria: verticalizzazione dei processi produttivi e diffusione nel territorio, superando le cosiddette "cattedrali nel deserto".
Politicamente questa fase è stata cogestita da tutte le forze dell'arco costituzionale ed è stata rappresentata soprattutto dall'asse Soddu, Raggio, Corona.
Anche in questa fase l'atteggiamento delle classi dirigenti sarde è stato quello di chiedere allo Stato un intervento finanziario robusto, con l'aggiunta di una responsabilizzazione diretta delle grandi aziende pubbliche del sistema delle Partecipazioni Statali, ed in primo luogo l'ENI.
Il risultato di tutto ciò è stato uno stravolgimento degli assetti della società sarda, passata dal medioevo della società agricola ancora esistente negli anni '50 alla condizione attuale ormai caratterizzata dai problemi della società postindustriale. Tutto ciò, parallelamente a quanto avveniva in Italia.
Soddu amava dire che in quei periodi il treno internazionale dello sviluppo che passava aveva come locomotiva i settori della petrolchimica e della chimica e che noi (sardi) dovevamo decidere se agganciarci a quel treno o no. Le scelta che i nostri padri e noi (come sistema Sardegna) allora abbiamo fatto è stata quella di prendere quel treno. Gli oppositori a quelle scelte sono stati pochi ed isolati. Del resto, allora tutti gli indicatori economici registravano una crescita della Sardegna assai superiore rispetto alle aree del Meridione non coinvolte da quel tipo di processi.
Sono state giuste quelle scelte? Esprimere un giudizio oggi (col senno di poi) non è corretto. Certo le abbiamo pagate care, soprattutto in termini ambientali, con l'eredità di inquinamento che ci hanno lasciato.
Ma francamente oggi non mi appassiona più discutere sulla giustezza o meno di quelle scelte.
Mi interessa molto, invece, costruire insieme le condizioni per una nuova fase di vita del nostro sistema regionale che certamente deve assumere l'ambiente (lato sensu) come fattore primo di eccellenza su cui costruire le strategie.
Per fare questo dobbiamo innanzitutto ripristinare una qualità ambientale che abbiamo perso, non solo nelle aree industriali ed in quelle più densamente urbanizzate ma anche in larga parte delle campagne. E dobbiamo anche fare molto per adeguare i nostri prodotti ed i nostri processi produttivi a nuovi standard di qualità.
Ma la risposta che non possiamo eludere è quella sul destino che vogliamo dare a ciò che resta degli impianti industriali ancora in funzione e sull'atteggiamento da assumere rispetto a nuove iniziative industriali.
Ed anche qui bisogna distinguere. Un conto è il destino degli impianti altro conto è il destino degli uomini che in essi lavorano. Il ogni caso la collettività deve farsi carico del destino di questi ultimi e le scelte di dismissione possibili non possono abbandonare le persone a se stesse. Ma questo problema è analogo a quello dei tanti che non hanno la fortuna di avere un lavoro e di essere, anche se in piccola parte, oggettivamente privilegiati rispetto a chi nel mercato del lavoro non è neppure riuscito ad entrare.
Sugli impianti industriali bisogna dirsi chiaramente che una volta esaurito il loro ciclo diventano soltanto un problema di smaltimento che va gestito. Diverso è il discorso su nuove iniziative industriali. Anche qui, bisogna convenire che non possiamo farne a meno, perché non si può, oggi, vivere di soli agricoltura e turismo ed essere dipendenti dall'esterno per tutto il resto. Nello stesso tempo dobbiamo prendere atto di una situazione internazionale assolutamente diversa rispetto a 30 anni fa, in cui il nostro differenziale competitivo rispetto alle altre aree è assolutamente inferiore e qualitativamente diverso.
Oggi è impensabile competere sul costo della manodopera ed anche sui servizi di base all'industria. Dobbiamo ragionare in termini di postindustriale e far leva sulle nostre eccellenze, che a ben guardare non sono poche.
Ma bisogna anche che ci diciamo francamente alcune cose: la nostra società è in grado di sostenere una percentuale così ampia di persone escluse dal mercato del lavoro ? I nostri rapporti con l'Europa ci consentono di poter contare su un intervento "perequativo" in grado di garantire la sussistenza ad una enorme percentuale di popolazione esclusa dai processi produttivi e condannata a vivere di assistenza? Io ho molti dubbi.
Questa Europa è troppo differenziata al suo interno e non può reggersi se non si riducono i differenziali tra le diverse aree. Molte popolazioni sono autorizzate a chiedere perché mai dovrebbero vivere con uno stipendio che è metà o un quarto dell'indennità di disoccupazione che vengono garantite in contesti più "avanzati" e ricchi grazie proprio alle ragioni di scambio ineguali con le aree più povere.
A mio parere ancora gli effetti devastanti di quest'ultimo periodo di "crisi" non si sono conclusi. Si sta raschiando il fondo del barile ma non è finita. Perché i debiti finanziari dello stato italiano sono così grandi che oggi il sistema complessivamente lavora per pagare – con difficoltà - gli interessi, ed è prevedibile che ancora verranno saccheggiati i redditi di fasce intermedie di popolazione con nuove tasse destinate a pagare la rendita finanziaria internazionale.
Cosa dobbiamo fare ? rinegoziare tutti i rapporti con lo stato italiano e con l'UE e decidere come vogliamo rapportarci al resto dell'Europa e del mondo in modo nuovo, riprendendoci la piena responsabilità delle nostre decisioni. Ed al nostro interno dobbiamo trovare nuovi equilibri sociali, con una distribuzione delle responsabilità e della ricchezza più eque. Semplice a dirsi, un po' meno a farsi, ma non abbiamo scelta.
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